La neutralità della rete


In questo articolo ci sono due spunti interessanti. Il primo è la comparazione sullo stato riguardante le regole di neutralità della rete negli SS.UU. e nell’U.E.

La comparazione è rilevante anche perché nell’articolo si fa riferimento al Portogallo, ma lo “zero rating” si applica anche qui. Sono quelle offerte mobili che vengono pubblicizzate dove ci sono applicazioni che puoi utilizzare “senza consumare i tuoi Giga”. Ecco, le applicazioni che non utilizzano i tuoi Giga sono privilegiate rispetto ad altre. Chi paga questo privilegio? Risulta veramente interesse di tutti?
La seconda è che trovare membri di un parlamento così esperti sui termini tecnici della questione è veramente raro.

Anche noi ne avremmo uno (Stefano Quintarelli). Però chi poi fa “vince” nel dare la sua posizione sono i Boccia. Per esempio sulla c.d. web tax. Con conseguenze che sarebbero grottesche, se non riguardassero tutti noi rendendole tragiche.

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Victory for Net Neutrality movement in India; Flipkart and Cleartrip pull outDATAQUEST


Sempre interessanti gli sviluppi in India, che con la Cina sono destinati a diventare gli stati con il maggior numero di utenti Internet.

Bene che anche le imprese comprendano che la non discriminazione del traffico favorisce l’innovazione e la competizione, e che da questo ne traggono vantaggi tutti.

Dai “walled gardens” non ci guadagna nessuno a lungo termine. Nemmeno gli operatori di rete. Bisogna sempre ricordare che se fosse per loro oggi avremmo X.25 e minitel, altro che Internet!

Victory for Net Neutrality movement in India; Flipkart and Cleartrip pull outDATAQUEST.

Poor People Of India To Zuckerberg: We Don’t Need Your Economic Racism | Mahesh Murthy | LinkedIn


Un ottimo articolo, che evidenzia i problemi di internet.org. L’impegno di permettere l’accesso a Internet anche a coloro che sono in divario digitale economico non può limitare la scelta individuale dei servizi e delle informazioni a cui accedere.

Poor People Of India To Zuckerberg: We Don’t Need Your Economic Racism | Mahesh Murthy | LinkedIn.

Today’s complex global supply chains are poised to be dismantled


L’influenza di Internet e degli sviluppi tecnologici su come interagiamo con il mondo cambierà il nostro modo di vivere ancora di più.
All’inizio ha permesso a persone lontane di interagire e organizzarsi. Poi di comperare cose lontane e di tracciarle mentre arrivavano a casa nostra. In seguito anche uno strumento di organizzazione e interazione locale, con lo sviluppo di dispositivi portatili intelligenti, prima smartphone e poi tablet. Questo anche grazie allo sviluppo delle reti mobili ovviamente.
E infine la possibilità di produrre (alcuni de)gli oggetti che ci servono direttamente a casa nostra, o eventualmente al negozio specializzato vicino a casa, “scaricando” le specifiche.

Gigaom

Nothing exemplifies the exceptional power and scale of today’s highest performing supply chains than the simple phrase: designed in California, assembled In China. Behind that elegant phrase are some of the world’s most sophisticated supply-chain processes, stitching together networks of suppliers, sub-assemblers and logistics companies around the globe.

Supply chains today are big, complex and global. Keeping them humming is an enormous challenge. But does it have to be that way? We think the world is entering the era of small, simple and local supply chains, powered by a new generation of manufacturing technologies such as 3D printing, intelligent assembly robotics and open-source hardware – also known as the Software Defined Supply Chain.

Simplification of chain lowers costs

It is evident that, over the next five years, most major consumer products will be cheaper and simpler to make using a software-defined supply chain than a traditional manufacturing process…

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Un oceano di differenza nella ritrasmissione dei canali televisivi


Due notizie, vicine nel tempo ma relative a UE e USA, ci danno la differenza nella interpretazione del copyright, e in particolare del diritto di riprodurre contenuti già liberamente disponibili agli utenti.

L’argomento del contendere era molto simile. Due società, una statunitense (Aero) e l’altra del Regno Unito (TV Catchup) riprendono i segnali televisivi in chiaro (free to air) e li ripetono in streaming. Il funzionamento in streaming ovviamente permette di visualizzare un canale con qualunque dispositivo, e non solo con la televisione. Per esempio sul PC, sul tablet o sullo spamtphone. E per questi dispositivi in casa sarebbe possibile farlo anche con dei dispositivi acquistabili sul mercato. Ma con questi servizi non è necessario comperare altro hardware, e comunque i canali sono disponibili ovunque vi sia un collegamento in banda larga, anche mobile.

Inoltre entrambi i servizi offrivano anche la possibilità di funzionare come videoregistratori virtuali, anche se gli inglesi hanno poi rinunciato al servizio per timori legati alla legalità di questo servizio. Entrambi permetto l’accesso esclusivamente ai canali ai quali l’utente avrebbe accesso tramite un normale servizio di televisione tradizionale. Ma aggiungendo un po’ di valore per l’utente finale. Lo fanno in modo leggermente diverso, e i dettagli tecnici potrebbero anche essere importanti.

Sebbene possa sembrare che tutte le televisioni che trasmettono gratuitamente per l’utente finale dovrebbero essere contente di avere qualcuno che permette una ulteriore diffusione del segnale senza dover investire in infrastrutture, le emittenti di tutti e due i lati dell’Oceano Atlantico hanno citato questi servizi per violazione dei loro diritti di proprietà intellettuale.

Ebbene, per Aero è appena giunta una sentenza di una corte di appello federale che sancisce la legalità del servizio offerto dalla società. La questione ora può solo essere portate eventualmente davanti alla Corte Suprema.

Totalmente diverso il destino in Europa per TV Catchup. Il caso è stato portato davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea e questa ha sentenziato che il servizio viola i diritti delle emittenti. Si veda qui e qui per due commenti “tecnici”. Ovviamente le televisioni hanno fatto subito festa, per altro accomunando questioni affatto differenti.

Trovo però che la sentenza sia in realtà assolutamente pericolosa, sia per la libertà che per la possibilità di scelta degli utenti finali, coloro che dovrebbero ricevere la maggior tutela dalle istituzioni e dalle leggi comunitarie. Almeno in teoria.

Per spiegare il perché, va prima rivisto il servizio in se. Se io utente ho un televisore, il suo semplice possesso (che in Italia è soggetto a tassazione di scopo a favore della RAI) mi dà diritto alla ricezione dei canali disponibili via etere nel luogo della mia residenza. Le televisioni pubbliche sono per altro obbligate a dare copertura a gran parte della popolazione per via del contratto di servizio.

Però io potrei avere un televisore, aver pagato la relativa tassa e non vedere nulla.

Supponiamo invece che io abbia accesso ad un servizio in banda larga, e che tale servizio mi ritrasmetta inalterato il programma televisivo che è disponibile nelle aree limitrofe ma non per me per esempio perché ho un ostacolo fisico che non mi permette la ricezione del segnale.  Ebbene, io posso finalmente fruire di un servizio pubblico che prima mi era precluso.

La decisione della Corte mi impedisce invece di farlo anche se non vi sono violazioni per il fornitore dei contenuti, anzi, lui stesso raggiunge un utente in più. Ovviamente la chiave qui è che il programma venga ritrasmesso inalterato, ossia con la pubblicità la cui diffusione paga i contenuti prodotti dall’emittente.

Ovviamente mi preclude anche di usufruire del contenuto sul dispositivo a me più utile. Per esempio a letto con in tablet, senza dovermi comperare un secondo televisore. Una bella e utile innovazione uccisa da una sentenza.

Francamente una decisione assurda e incomprensibile, anche considerando che lo stesso servizio è stato considerato perfettamente legale negli USA.

Risulta decisamente prioritario rivedere il sistema delle proprietà intellettuali in Europa, eliminando ogni ostacolo all’innovazione e mettendo al centro gli utenti.


Non è facile che un servizio europeo venga ritenuto più innovativo di gettonatissimi servizi analoghi nati negli Stati Uniti. Certo, la Svezia è un paese sempre innovativo. Skype ha radici anche qui.
Ma nel campo della fruizione di questi servizi l’iniziativa sempre venuta da oltre oceano.
In Svezia però c’è una situazione particolare. Una grande diffusione di reti di accesso in fibra ottica, di proprietà pubblica e utilizzabili da tutti gli operatori a condizioni eque, trasparenti e non discriminatorie.
Da noi i servizi di televisione via internet vengono, e non c’era da dubitarne, dall’operatore ex-monopolista, e da qualche tentativo di operatori in ULL. Con scarso successo.
Nel resto d’Europa e quasi peggio, visto che esiste si una rete alternativa, e infatti i prezzi di accesso a Internet sono più bassi, ma è proprio quella dell’operatore di televisione via cavo. Che quindi non ha interesse a farsi fare concorrenza sulla sua rete.
Beati gli Svedesi allora.

I (molto presunti) danni della pirateria


Già Stefano Quintarelli aveva fatto notare che, a dispetto dei tanti capelli strappati, gli incassi al botteghino per i film sono in costante aumento. E che comunque la pirateria cala quando vi sono offerte legali adeguate.

Ma oggi anche la Commissione Europea pubblica uno studio che mostra come lo scaricamento illegale non solo non danneggi il mercato musicale, ma probabilmente contribuisca a farlo un po’ crescere. Considerazioni che compaiono su siti tecnologici (THG per esempio).

Lo stesso non avviene per i quotidiani “mainstream”, di solito così solerti a fare da megafono alle tesi dei vari gestori di diritti, come la SIAE, che millantano perdite milionarie a causa di Internet e della pirateria. E cito solo l’Italia, ma non è diverso nel resto del mondo.

Basti pensare al mega blitz contro megaupload e il suo proprietario, con elicotteri, polizia e estradizioni. Il tutto finito con l’assoluzione di Kim Dotcom.

Basteranno i dati per far cessare queste sciocchezze? Temo di no.

L’arretratezza italiana nei servizi Internet


Si parla tanto in Italia di puntare sull’ICT per migliorare la produttività, sia nel pubblico che nel privato. La realtà purtroppo è che siamo molto indietro, e che non pare abbiamo iniziato una strada virtuosa.

E quando arrivano dati statistici questi sono sempre a nostro sfavore. Oggi per esempio ho visto questo report sull’hosting dei domini mondiali, diviso per città.

Ovviamente sono in largo vantaggio gli Stati Uniti. In classifica vi sono tutti i grandi paesi del mondo, Cina, India, Giappone, Russia, Brasile. Ma troviamo anche Bangkok, i due principali centri del Vietnam, Taipei, due centri in Turchia, Argentina, Australia.

E qualche piccola sorpresa, come Nassau nelle Bahamas. Che per altro sfrutta la prossimità agli Stati Uniti e il favorevole regime fiscale e regolatorio.

In Europa troviamo Parigi, Berlino, Londra, Amsterdam. Persino Kiev.

Chi non troviamo proprio nelle prime cento città è l’Italia. Che per altro è al 12 posto nel mondo come domini registrati (vedi qui) . Significa che comunque la maggior parte dei domini italiani sono gestiti all’estero. Per altro il numero totale è in forte calo.

Un bel segno, non c’è che dire, della nostra capacità di fare affari sulla rete.

Il danno dei brevetti stupidi è sempre più evidente


Sono sempre stato contrario ai brevetti sul software, che oltre ad essere contrari allo spirito di condivisione della conoscenza, cosa che l’istituto del brevetto doveva invece favorire, sono un danno per lo sviluppo economico e sociale.

Ne beneficiano pochi, generalmente grandi e non gli inventori ingegnosi e senza soldi, e ci perdono in troppi.

Inizialmente solo il movimento del software libero era apertamente contrario ai brevetti software, ma pian piano la cosa, proprio per il suo contenuto di limite all’innovazione, stà diventando sempre più diffusa.

Non si può infatti non concordare con ogni punto della proposta di Mark Cuban, milionario americano noto soprattutto per essere proprietario dei Dallas Mavericks, squadra di pallacanestro professionistica campione NBA nel 2011, di eliminare o ridurre drasticamente la durata nel tempo dei brevetti software.

Cardani e la par condicio su Internet


Quando si mettono degli incompetenti nelle Autorità di regolamentazione del mercato, oltre ad una pessima regolamentazione ci si possono aspettare uscite improvvide come quella di Cardani sulla par condicio su Internet e i social media.

Cardani

Già la par condicio in se è un obbrobrio, e può avere un senso solo e unicamente perché per il settore radiotelevisivo vi sono delle condizioni oggettive di limitazione della pluralità. In particolare lo spettro elettromagnetico non è infinito, quindi solo un numero limitato di trasmissioni può avere luogo. E poi, cosa peculiare del nostro paese, questo numero limitato è in mano a pochi, in effetti si parla di oligopolio per il settore televisivo. Anche per il fatto che non si è voluto regolarlo all’inizio. Inoltre, cosa che non rappresenta un limite fisico ma che è parte della nostra peggiocrazia, i giornalisti italiani nel migliore dei casi seguono la loro idea di informazione che è chiamare i più famosi (che così lo diventano maggiormente) e lasciar fuori gli altri. Nella stragrande maggioranza seguono le indicazioni del loro editore di riferimento (Vespa docet).

Ma su Internet non vi è alcuna limitazione fisica. Chiunque può aprire un sito, un profilo su un social network e farsi sentire. Con molti meno problemi di che farlo con un giornale. Giornali che infatti sono esentati dalla par condicio, salvo una generale regola a non poter discriminare nell’accettare messaggi di propaganda elettorale, per altro a pagamento. Regola dalla quale sono esentati i giornali di partito.

Se una tale regola può anche avere un senso nel momento in cui i giornali sono percettori di contributi e/o agevolazioni pubbliche, lo stesso non vale per la rete.

Che comunque è uno spazio talmente complesso che per sua natura sfugge a regolamentazioni puntuali quali quelle della par condicio.

Pensa forse Cardani di poter imporre qualche quota di partecipazione ad un sito localizzato negli Stati Uniti, che parla in italiano di politica italiana e che magari, perché dice cose interessanti, è molto seguito dall’Italia. Ma andiamo.

La cosa peggiore è che non è la prima volta che interviene sul tema. Qualche giorno fà, in occasione delle celebrazioni per i 10 anni dei CORECOM, aveva già espresso questo concetto. Ma proprio nessuno in AGCOM gli ha fatto presente la bestialità che gli era uscita. Non che gli altri commissari siano degli esperti del settore, sono più che altro amici dei politici che li hanno eletti, altrettanto se non più ignoranti in materia. Ma qualche buon tecnico in Autorità c’è. Non gli avranno detto nulla? O forse è lui così pieno di se da pensare di aver detto una cosa intelligente? Mah. Certo che è triste.

E pensare che c’è tutta questa enfasi sull’agenda digitale e sulle reti di nuova generazione come motori economici e di sviluppo culturale. Ma se poi questi sono coloro che dovrebbero regolare e guidare i processi di sviluppo, la battaglia è persa in partenza.